Domenico Appendino, Presidente di SIRI, Associazione Italiana di Robotica e Automazione.
SIRI, Associazione Italiana di Robotica e Automazione, si pone vuole promuovere e diffondere la cultura robotica e le tecniche dell’automazione nel nostro Paese: il suo Presidente, Domenico Appendino, ci parla di progetti e programmi di sviluppo.
di Giuseppe Costa
La robotica italiana si sta evolvendo. Le informazioni preliminari di IFR (www.ifr.otg) evidenziano nel 2017 uno sviluppo per l’automazione industriale, con il nostro Paese che assume un ruolo di primo piano, presentando un tasso di crescita del 19%, con 8.000 unità circa: il doppio rispetto alla Germania, e un numero più alto del Giappone. “Sono dati allineati a ciò che dicono anche i nostri associati e che derivano in parte dal successo del piano d’incentivazione finalizzato a Industria 4.0. L’andamento degli ordini evidenzia un trend soddisfacente anche nel 2018, con un primo semestre decisamente positivo”, dice Appendino, Presidente di SIRI (www.robosiri.it), Associazione Italiana di Robotica e Automazione, che dal 1975 rappresenta imprese e protagonisti della ricerca, attivi in Italia nell’articolato settore di riferimento. Abbiamo incontrato il suo Presidente, Domenico Appendino, ingegnere, Vicepresidente esecutivo dell’azienda torinese Prima Industrie e da sempre protagonista del mondo dell’automazione, per farci raccontare gli obiettivi di SIRI, i programmi di sviluppo e le idee sul futuro dei robot nell’industria italiana.
D. Che ruolo svolge oggi, nel nostro Paese, un’associazione come SIRI?
R. Oggi le associazioni soffrono in Italia, perché quando si vivono momenti complessi di trasformazione si è portati a tagliare le spese considerate “meno essenziali”, come viene erroneamente definita l’iscrizione a enti associativi. Ma il loro ruolo è importante, perché possono costituire per gli imprenditori un’opportunità di confronto su temi attuali e fornire spunti utili ad affrontare le situazioni critiche con maggiore consapevolezza e volontà risolutiva. Questi aspetti credo valgano soprattutto per noi di SIRI, che svolgiamo una funzione eminentemente culturale.
La robotica italiana si sta evolvendo. Le informazioni preliminari di IFR evidenziano nel 2017 uno sviluppo per l’automazione industriale, con il nostro Paese che assume un ruolo di primo piano, presentando un tasso di crescita del 19%, con 8.000 unità circa.
D. Quali sono le strategie e i progetti per potenziare la diffusione delle tecnologie della robotica e dell’automazione?
R. In passato, ai nostri esordi, abbiamo avuto la funzione di accompagnare gli imprenditori e i tecnici italiani nella conoscenza della robotica. Anche se mi sembra preistoria, ancora ricordo quando, negli anni Ottanta, proponendo impianti robotizzati, c’era sempre qualcuno che chiedeva: “Ma se è un robot, può fare anche il caffè?”. Oggi invece c’è maggiore consapevolezza dei processi e del ruolo dei beni strumentali: il robot non è più uno sconosciuto, è entrato a pieno diritto nel mondo industriale, con molti aspetti positivi e anche qualcuno negativo. Noi riteniamo che l’uomo debba essere sempre al centro dei progetti industriali. Quindi perseguiamo la nostra attività di formazione di base, per esempio con lo storico corso annuale su automazione e robotica, ma al tempo stesso abbiamo avviato, da due anni, una nuova fase, non più eminentemente tecnica ma di formazione a più ampio raggio. Nel 2017, per esempio, abbiamo organizzato un incontro innovativo per i nostri canoni, una tavola rotonda intitolata “L’Italia è una repubblica fondata sul lavoro… e i robot?”, con un richiamo esplicito al primo articolo della nostra Costituzione. Abbiamo chiamato sindacalisti, formatori, ingegneri, imprenditori per affrontare, con onestà intellettuale, un tema centrale del dibattito attuale: quello dei robot e dell’occupazione. Il punto è che i media spesso amano demonizzare robotica e robot perché porterebbero via posti di lavoro. In realtà avviene il contrario. I robot creano altri posti di lavoro, più qualificati, più retribuiti, più “umani”, nel senso che consentono alle persone di occuparsi di cose diverse, più creative e meno usuranti.
“Noi riteniamo che l’uomo debba essere sempre al centro dei progetti industriali. Quindi perseguiamo la nostra attività di formazione di base, per esempio con lo storico corso annuale su automazione e robotica”.
D. Come va affrontato il tema dell’impatto dei robot sull’occupazione?
R. È un argomento complesso. Ora, per esempio, stiamo pensando a un nuovo convegno sugli aspetti legati alla sicurezza, al comfort nel posto di lavoro. Un tema ancora molto delicato per noi, in Italia. È chiaro che se impiego un robot per scaricare un pezzo l’addetto non si spaccherà più la schiena. Se monto su un robot sull’attrezzo per la saldatura, evito all’operatore di respirare i gas generati dal processo. In definitiva non direi che l’automazione “uccide” i posti di lavoro, ma che invece declina l’occupazione secondo un altro paradigma fondamentale, quello della necessità della formazione per professionalità differenti, in linea con una nuova visione dei processi produttivi e industriali. Oggi abbiamo il problema di qualificare le persone e chi ha più timori a questo riguardo non sono i giovani, come emerge anche dalle statistiche e dalle informazioni che raccogliamo nei nostri convegni. Sono le persone intorno ai 50 anni. Per loro riqualificarsi è molto più difficile e questo è un altro ambito in cui SIRI si sta muovendo.
SIRI, membro dell’IFR, si pone l’obiettivo di promuovere e diffondere la cultura robotica e le tecniche dell’automazione nel nostro Paese.
D. Come cambia la robotica? Sarà sempre più collaborativa?
R. Il futuro prenderà due direzioni: la robotica, definiamola così, “in gabbia” e quella “fuori gabbia”. La prima, quella nelle celle robotizzate chiuse, continuerà ad esistere dove servono cicli di lavoro molto elevati. Ci sono però realtà in cui la linea di produzione ha bisogno della presenza centrale dell’uomo, perché serve il suo know-how o la sua manualità. In questi casi il robot collaborativo ha una sua funzione, perché può essere programmato per autoapprendimento, semplicemente conducendo il suo braccio con una mano. Si può quindi inserire in un ciclo di produzione senza stravolgerlo, per fargli eseguire lavori pesanti mentre l’uomo si occupa di altro. Il cobot così impiegato consente anche a un operatore meno capace e meno formato di utilizzare sistemi di automazione complessi.
Gli stessi esperti di indagini statistiche e di mercato prevedono un futuro in cui operatori e robot lavoreranno insieme e uno supporterà l’altro: in particolare, gli umani si sposteranno verso ruoli higher-skilled e meglio pagati, si stima il 30% in più rispetto alle medie attuali, come ad esempio la programmazione, la supervisione e il mantenimento dei robot stessi. Per questo la vera sfida si gioca sulla formazione.
“I robot creano altri posti di lavoro, più qualificati, più retribuiti, più ‘umani’, nel senso che consentono alle persone di occuparsi di cose diverse, più creative e meno usuranti”.
D. Pensa che ci sarà un impatto dell’intelligenza artificiale su robot e automazione?
R. Se ci riferiamo ai modelli che vediamo nei film di fantascienza c’è ancora un abisso tra realtà e immaginazione. Quell’intelligenza artificiale è ancora lontana. Però dobbiamo tenerne sotto controllo gli sviluppi. Quando diciamo che oggi robot e automazione creano lavoro abbiamo in mente il livello attuale dell’intelligenza artificiale. Ma è comunque serio porsi delle domande per il futuro. Al momento vediamo un circolo virtuoso: l’azienda installa sistemi di automazione, diventa più competitiva, cresce, crea nuovi posti di lavoro. Quindi il trend è positivo e autorizza all’ottimismo. Come si innesterà lo sviluppo dell’intelligenza artificiale in tutto questo? Dobbiamo pensare che è una creazione umana, fatta dagli uomini per gli uomini, e che come qualunque strumento può essere usato bene o male. È anche un tema politico, e direi che l’Europa, finora, si è mossa bene su questo fronte, creando, ad esempio, una commissione per l’etica della robotica e dell’intelligenza artificiale. L’Europa è tra le culle mondiali della cultura e della sensibilità sociale e penso possa affermarsi anche come un punto di riferimento su questi temi.
“In definitiva non direi che l’automazione ‘uccide’ i posti di lavoro, ma che invece declina l’occupazione secondo un altro paradigma fondamentale, quello della necessità della formazione per professionalità differenti, in linea con una nuova visione dei processi produttivi e industriali”.
D. Vi occupate anche di robotica di servizio? Come va questo settore?
R. Sì, anche la robotica di servizio entra nei nostri interessi, anche se con qualche difficoltà in più rispetto alla robotica industriale. Il perché è molto semplice. Sui robot per l’industria l’Italia ha sempre avuto un ruolo trainante ed estremamente innovativo. La robotica di servizio, invece, da noi si è sviluppata un po’ in ritardo rispetto ad altri Paesi, senza una generazione di imprenditori convinta in questo tipo di prodotto, che è anche difficile da categorizzare, perché copre un’ampia e variegata gamma di prodotti che parte dall’aspirapolvere domestico automatico fino al robot umanoide. Abbiamo, invece, diverse eccellenze universitarie che lavorano sul robot di servizio in termini di ricerca. Da questo sforzo sono nate anche moltissime start-up, che fanno però fatica a fare il passo ulteriore e diventare realtà industriali. Quindi seguiamo con attenzione il comparto, perché le competenze ci sono, e speriamo che da esse possa nascere qualcosa di importante.
D. Cosa ci manca per trasformare le idee migliori in impresa?
R. Uno dei valori dell’Italia è l’individualismo, che pur essendo talvolta estremo, in molte situazioni permette al singolo di risolvere problemi che cittadini di altri Paesi non sarebbero nemmeno capaci di immaginare. Ma al tempo stesso è anche un grande limite, perché è ostacolo in operazioni necessariamente più corali, ad esempio non facilita un dialogo costruttivo tra impresa e ricerca. Non siamo ancora abbastanza bravi a collaborare tra noi e questo ci porta a perdere occasioni importanti, ad esempio fondi europei, pur avendo idee e capacità. Ecco, SIRI rappresenta forse uno dei non molti ambienti in Italia dove industria e ricerca si incontrano e dialogano. Mi auspico che l’associazione che rappresento possa diventare un modello di come le cose si possano fare diversamente e meglio anche in Italia. ©TECN’È
“Abbiamo diverse eccellenze universitarie che lavorano sul robot di servizio in termini di ricerca. Da questo sforzo sono nate anche moltissime start-up, che fanno però fatica a fare il passo ulteriore e diventare realtà industriali”.