La grande occasione che l’Europa – e ovviamente anche l’Italia – non può perdere sarà la sfida giocata sul campo dell’innovazione tecnologica e della produzione a elevato valore, materia sulla quale, grazie a Industry 4.0, le economie tradizionali potranno fare la differenza con quelle emergenti.
La Commissione Europea ha recentemente invitato gli Stati membri a porre l’industria al centro delle proprie politiche economiche, inserendo nelle agende programmatiche la competitività come tema prioritario. L’auspicio è che anche il nostro Governo ne tenga conto, senza perdersi in litigi e compromessi lobbistici, ma pensando al futuro delle nostre imprese.
di Alberto Taddei
In base a quanto emerge scorrendo gli studi rilasciati a Bruxelles, l’industria rappresenta per l’Europa un asset strategico il cui valore aggiunto gioca un ruolo chiave nell’economia della UE28 e sul quale è necessario puntare per uno sviluppo robusto e sostenibile. Lo conferma il fatto che, nonostante l’indebolimento subito negli ultimi anni, la manifattura europea (intendendo con ciò tutte le classiche voci della produzione industriale, escluse cioè le attività di estrazione, costruzione e generazione di energia) si caratterizza per un contributo al PIL pari al 15%, dimostrando una potenzialità superiore all’industria statunitense, che registra un valore pari al 12%.
Risulta chiaro come un forte presidio manifatturiero non significhi solamente più PIL e posti di lavoro, ma maggiori opportunità di fare ricerca e innovazione, quindi più occasioni per aumentare produttività, qualità e valore aggiunto. E non da ultimo, il livello delle esportazioni.
INDUSTRIA, MOTORE SOCIALE ED ECONOMICO
Anche se il 15% di valore aggiunto può sembrare modesto, l’importanza dell’industria in Europa è sancita dal fatto che è da essa che nella UE vengono a dipendere l’80% delle innovazioni e il 75% delle esportazioni. E, se si considerano gli effetti indotti che l’economia industriale genera su quella dei servizi, si può ben dire come il manifatturiero in Europa possa essere considerato il vero motore sociale ed economico.
Eppure, chi più chi meno, tutti i principali Paesi hanno perso negli ultimi dieci anni non solo valore aggiunto, ma posti di lavoro e opportunità di crescita, a discapito della forte concorrenza dei Paesi emergenti che, salvo casi specifici, continua ad essere ancora molto focalizzata sui costi di produzione.
Certamente queste considerazioni non hanno la stessa valenza in tutti i Paesi della UE28. Se Germania ed Est Europa, ad esempio, si sono mantenuti sostanzialmente immuni dalle striscianti ombre della deindustrializzazione, non così è stato per Francia e Gran Bretagna, le cui economie industriali hanno subito un contraccolpo molto forte, come vedremo tra poco. Un discorso diverso lo merita l’Italia, le cui recenti e oggettive difficoltà legate al mondo industriale possono dirsi più legate a situazioni di stagnazione interna e immobilismo riformista, che non a un irreversibile processo di deindustrializzazione, come alcune Cassandre di international blasone volevano darci a bere. A loro diciamo solamente di guardare ai livelli di export che la nostra industria continua a mantenere molto elevati in tutto il mondo, a conferma dell’alto valore aggiunto e tecnologico che la nostra manifattura, specialmente quella meccanica, riesce a generare.
Figura 1 - Nei primi anni ’90, il peso delle allora emergenti economie sul PIL industriale mondiale era del 21%. A distanza di vent’anni è pressoché raddoppiato (Fonte: Roland Berger).
Figura 2 - La quota industriale sul PIL degli stati europei nel 1991 e nel 2011. Francia e UK hanno registrato i maggiori cali percentuali.
I VENT’ANNI CHE HANNO CAPOVOLTO IL MONDO
È un dato di fatto incontrovertibile: lo scenario industriale mondiale è radicalmente mutato nel corso degli ultimi vent’anni. Per averne conferma, basta fare un salto indietro ai primi anni ’90, quando il valore aggiunto della produzione industriale al PIL mondiale poteva essere stimato in 3,5 trilioni di euro, dei quali oltre il 60% appannaggio delle sei maggiori economie industriali: USA, Giappone, Germania, Italia, UK e Francia. Il peso delle allora emergenti economie non si attestava che al 21%. Ma sarebbe stato ancora per poco (figura 1).
È proprio negli anni ’90 che ha inizio la scalata industriale ad opera dei cosiddetti BRIC (Brasile, Russia, India e Cina), a cui a breve seguiranno anche alcuni Paesi dell’Est Europa, come Polonia, Repubblica Ceca e Romania. L’ingresso di nuove economie, quali l’Indonesia, la Malesia, il Messico e numerose altre (note sotto il nome di Next-eleven) ci porta al 2011, anno per il quale gli analisti della UE hanno stimato in 6,5 trilioni di euro, quasi il doppio di vent’anni prima, il valore aggiunto derivante dalle attività industriali globali. Se in questo lasso temporale i Paesi delle economie industriali tradizionali hanno visto crescere in termini aggregati il loro PIL industriale del 17%, le economie emergenti lo hanno visto schizzare di un ordine di grandezza in più, aumentandolo di ben il 179%. La conseguenza è che i Paesi emergenti rappresentano ora il 40% del PIL industriale worldwide.
Ma non è tutto. Tra le pieghe degli effetti di quello che potremmo definire il riassetto economico-industriale mondiale, si inserisce la frattura che nell’ultimo decennio si è andata aprendo tra i Paesi industrializzati dell’economia europea, che hanno dimostrato atteggiamenti diversi nei confronti delle rispettive attività industriali. Nonostante il potenziale vantaggio tecnologico, solo pochi di essi hanno difeso la propria industria preservandone il valore. Vero, la perdita dei posti di lavoro è stata cospicua, ma non è una scusante. Tra i paesi top europei, Germania, Italia e Svizzera, ad esempio, negli ultimi 10 anni sono riusciti a mantenere una buona quota di valore aggiunto industriale sul totale del loro PIL, continuando a mantenere buone posizioni di leadership internazionale. Altri Paesi hanno invece registrato una caduta sia in termini di occupazione che di PIL industriali, come la Francia, passata dal 15% all’11% nel decennio 2001-2011, o la Spagna e la Gran Bretagna, che hanno registrato un trend analogo (figura 2).
Per meglio comprendere la portata di ciò che è accaduto nell’ultimo decennio, basti pensare all’evoluzione che il mondo del lavoro ha fatto registrare a livello industriale. Mentre il numero delle assunzioni in Cina e Brasile ha segnato rispettivamente +39% e +23% (si pensi a questi valori in termini assoluti, considerando la popolazione delle citate nazioni, n.d.r.), in Germania i posti di lavoro sono calati dell’8%, in Francia del 20% e in UK del 29%.
UN’OCCASIONE CHIAMATA INDUSTRY 4.0
È tutto irrimediabilmente compromesso, allora? Decisamente no. Come sottolinea la Commissione Europea (www.ec.europa.eu), la grande occasione che l’Europa – e ovviamente anche l’Italia – non può perdere sarà la sfida giocata sul campo dell’innovazione tecnologica e della produzione a elevato valore, materia sulla quale, grazie a Industry 4.0, le economie tradizionali potranno fare la differenza con quelle emergenti.
Ma da dove ha origine questo termine, oramai di uso comune in ambito industriale ma, ahimè, non ancora entrato nelle agende dei nostri politici? La genesi di Industry 4.0 deriva da un progetto di sviluppo sostenuto alcuni anni fa dal governo federale tedesco per favorire la competitività industriale sfruttando le più recenti tecnologie di automazione e comunicazione. Il termine Industry 4.0 è stato tuttavia coniato e ufficialmente utilizzato per la prima volta durante l’Hannover Messe dell’aprile 2011.
Il concetto chiave racchiuso in questa espressione sottintende a un nuovo modo di concepire e organizzare la catena del valore tipica del mondo industriale. Utilizzando quelli che potremmo definire i macroconcetti di sistemi cyber fisici (CPS), Internet of Things (IoT) e Internet of Services (IoS), la nuova industria 4.0 fa proprio un nuovo approccio sistemistico che vede gli impianti come entità flessibili e autonome, capaci, per così dire, di ascoltare il mondo con cui interagiscono e di autoadattarsi per garantire qualità, tempistiche e personalizzazioni. Ovviamente, nel nuovo paradigma di Industry 4.0, la tecnologia non sarebbe tale se non garantisse un adeguato livello di efficienza dal punto di vista non solo operativo ma anche energetico.
Ebbene, per riassumere, potremmo semplicemente dire che la quarta rivoluzione industriale si basa su due cardini fondamentali, la comunicazione e l’intelligenza, grazie a cui è possibile trasformare la fabbrica in un impianto “collaborativo” ad elevato valore.
Figura 3 - La matrice Rolan Berger a quattro quadranti valuta la propensione dei Paesi europei a recepire e applicare i concetti di Industry 4.0.
EUROPA UNITA, MA OGNUNO PER SÉ
Benché i concetti di quarta rivoluzione industriale siano partiti dal suo paese simbolo, la Germania, l’Europa può correre il serio rischio di trovarsi in seria difficoltà nel riuscire a guidare verso una politica industriale omogenea tutti i suoi stati membri. Ciò per il grande limite di essere omogeneamente strutturata solo sulla carta. In poche parole, la barriera da superare è quella che vede i singoli Paesi agire ciascuno per sé, quando il resto delle grandi economie mondiali, leggasi Stati Uniti e Cina, hanno la massa critica per poter investire in programmi di grande respiro e a lungo termine.
Da questo punto di vista, è particolarmente significativo uno studio condotto lo scorso anno da Roland Berger, società di consulenza strategica industriale, che fotografa l’eterogeneità di approccio con cui i vari Paesi europei guardano ai nuovi paradigmi dell’industria 4.0 (figura 3).
In ordinata è riportato il livello di propensione a Industry 4.0, un indicatore che ci dice quanto il Paese in questione è pronto a recepire e applicare i concetti del nuovo modello industriale, composto da numerosi fattori riconducibili alla eccellenza industriale e al valore delle infrastrutture tecnologiche. In ascissa è invece indicata l’incidenza della quota di produzione industriale quale percentuale del PIL.
La matrice che ne risulta suddivide il piano di riferimento in quattro distinte classi. Nel quadrante dei fuggitivi vi sono la Germania, com’era ovvio, e l’Irlanda, dove negli ultimi anni le grandi industrie farmaceutiche hanno insediato numerosi impianti a tecnologia avanzata, rendendo la produzione industriale la principale delle voci che ne compongono il PIL. I tradizionalisti sono invece i Paesi che dispongono di una buona base industriale, che però è molto disomogenea in quanto a vera innovazione tecnologica. Gli indecisi mancano invece di una base industriale consistente. Infine i cosiddetti potenziali sono Paesi caratterizzati da una forte propensione alla tecnologia e che, a seguito di adeguate iniziative di sostegno, potrebbero compiere il balzo decisivo verso l’eccellenza.
E noi? L’Italia si colloca quasi a cavallo di tutti e quattro i quadranti. Abbiamo una buona base industriale, composta da molte eccellenze, anche se disomogenea in termini di investimenti e valore aggiunto della produzione. Siamo però anche un po’ esitanti, segno questo di un difetto strutturale legato alla mancanza di un chiaro piano di politica industriale.
Figura 4 - Bruxelles si era posta l’obiettivo di recuperare 5 punti percentuali di PIL industriale entro il 2020 per mantenere l’industria europea competitiva. Più realisticamente è possibile ipotizzare questo target raggiungibile entro il 2030.
Figura 5 - Per recuperare il 5% di PIL industriale, l’Europa dovrebbe investire 90 miliardi di euro all’anno, per un totale di 1.350 miliardi di euro nei prossimi 15 anni (Fonte: Roland Berger).
UN INVESTIMENTO POSSIBILE
Per gli analisti di Roland Berger è necessario che la produzione industriale europea recuperi almeno 5 punti percentuali di valore aggiunto entro il 2030 (l’obiettivo del 20% entro il 2020 della commissione UE è già ora praticamente impraticabile, n.d.r.) per crescere e recuperare posizioni nei confronti delle economie emergenti (figura 4). Per raggiungere questo obiettivo, assolutamente alla nostra portata grazie al vantaggio competitivo che l’applicazione dei concetti di Industry 4.0 può darci, è necessario che siano disponibili i necessari investimenti. È stato stimato che per generare il 5% mancante all’appello, le imprese europee dovrebbero elevare il loro livello di investimenti portandolo dagli attuali 60 ad almeno 90 miliardi di euro all’anno, cioè a un totale di 1.350 miliardi di euro spalmati sui prossimi 15 anni (figura 5).
Una cifra irragionevole? No di certo: basta confrontare questo importo con alcuni programmi di salvataggio attuati dall’unione europea per gli stati membri indebitati, o all’operazione Quantitative Easing posta in essere dalla BCE, che prevede acquisti di titoli di stato per ben 60 miliardi di euro al mese. Fatti due conti, se gli stati mettessero il 12% di questa grande liquidità a disposizione delle imprese, l’obiettivo potrebbe già essere un risultato certo.
Figura 6 - Secondo gli analisti di Roland Berger, se sfruttata correttamente, l’occasione di Industry 4.0 genererà un impatto molto importante in termini di marginalità e intensità di capitale.