Daniela Robasto è professoressa di Docimologia e Progettazione nelle istituzioni educative e nei servizi educativi presso il Dipartimento di Filosofia e Scienze dell’Educazione (DFE-UNITO) dell’Università degli Studi di Torino.
Come affrontare il processo educativo o di reskilling nelle imprese che vogliono perseguire una trasformazione digitale? Che ruolo possono avere i robot? Ne parliamo con Daniela Robasto, docente dell’Università di Torino.
di Riccardo Oldani
L’introduzione dei robot e delle tecnologie 4.0 nelle imprese manifatturiere comporta lo sviluppo di specifiche competenze a tutti i livelli, dal management agli addetti che lavorano con le macchine. Un’evoluzione delle conoscenze che molti hanno sottovalutato, pensando che potesse realizzarsi in modo spontaneo, con il risultato che oggi l’industria vive una drammatica carenza di personale. Come va affrontato allora il processo educativo o di reskilling nelle imprese che vogliono perseguire una trasformazione digitale? Che ruolo possono avere i robot nel facilitarlo? Ne abbiamo parlato con Daniela Robasto, docente dell’Università di Torino esperta di ricerca didattica e formazione e attenta osservatrice dei processi di innovazione negli ambienti di lavoro.
NECESSITANO COMPETENZE
Tutti i cambiamenti comportano uno sforzo. A maggior ragione quando coinvolgono vari strati di una realtà. Eppure, di fronte alla rivoluzione digitale dell’industria manifatturiera in troppi hanno creduto che fosse semplice adattarsi. “Basta schiacciare un bottone ed è fatto”, dicevano molti imprenditori all’epoca della rivoluzione informatica, quando i PC cominciarono a entrare nelle aziende. Ci sono voluti anni perché quella generazione di persone, abituate a un mondo analogico, si rendesse conto della profonda trasformazione introdotta dai bit e dai software.
Ora la stessa situazione si sta ripetendo nelle fabbriche dove, all’improvviso e tutti insieme, hanno iniziato a entrare nuovi sensori, sistemi di visione, robot, cobot, automazione e intelligenza artificiale. Si è pensato che bastasse introdurre nuove interfacce o nuovi controlli touch-screen, a cui tutti siamo abituati, perché passiamo ore su smartphone e tablet, per rendere immediatamente comprensibile un cambiamento che invece tocca nel profondo l’organizzazione delle imprese.
In molti abbiamo commesso questo errore di semplificazione: le nuove macchine sono facili da usare e quindi è anche facile imparare a usarle, si pensava. Non è stato così. Il risultato, oggi, è che le aziende tecnologiche non trovano persone da inquadrare nei loro organici e fanno perfino fatica a capire quali figure devono cercare: tecnici superesperti di tecnologie oppure persone meno ferrate sulle funzionalità delle nuove macchine, ma più pronte ad assumersi responsabilità, a ragionare sui processi, proporre soluzioni.
Come si affronta questo dilemma? Ci aiuta a capirlo un concetto illuminante di Joseph Schumpeter, pioniere degli economisti, che descrisse l’innovazione come una “distruzione creativa”, in cui il processo di cambiamento rivoluziona la struttura economica. Trasposta in ambito industriale, questa idea ci suggerisce che non si può pensare d’introdurre un’innovazione profonda senza pensare di dover ricostruire qualcosa per raccoglierne i frutti. Lo spunto emerge dalle prime pagine di un interessante libro, intitolato “Robot e cobot nell’impresa e nella scuola”, edito da Franco Angeli (vedi il riquadro) e curato da Daniela Robasto, professoressa di Docimologia e Progettazione nelle istituzioni educative e nei servizi educativi all’Università di Torino. Ed è partendo da questo spunto che l’abbiamo contattata e le abbiamo chiesto di rispondere a qualche nostra domanda, per capire come dovrebbe essere affrontato il tema della formazione e delle competenze dei tecnici per la nuova industria 4.0, di cui le nostre aziende lamentano una spaventosa carenza.
Un tecnico mostra a una sua collega l’utilizzo di un robot per la saldatura. La formazione di nuove generazioni di addetti per le industrie digitali è un tema attuale in tutto il pianeta.
Il tema della transizione digitale nel nostro manifatturiero è estremamente attuale e sentito. Nelle aziende tecnologiche però tende a essere considerato soltanto dal punto di vista delle competenze tecniche (come usare i nuovi macchinari o i nuovi sistemi di controllo), spesso ignorando una sfera di altri aspetti fondamentali nelle fasi di cambiamento. In che modo andrebbe invece preparato e attuato il percorso verso l’innovazione?
L’innovazione digitale negli ambienti di produzione rappresenta un paradigma non più trascurabile, da perseguire per rimanere competitivi sul mercato. Le nuove tecnologie 4.0 offrono benefici significativi per le organizzazioni, che possono sfruttare la digitalizzazione per aumentare la propria competitività globale, rendendo i processi più efficienti, performanti, interconnessi e sicuri. Il cambiamento coinvolge l’intero panorama industriale, ivi compreso il settore manifatturiero, dove si trasformano le attività, i ruoli, gli strumenti e gli ambienti di lavoro e, di conseguenza, le competenze richieste ai lavoratori. Frequentemente si trascura quest’ultimo aspetto, ipotizzando che le competenze dei lavoratori si possano trasferire quasi automaticamente.
Quali competenze servono ai manager delle aziende che avviano un percorso di innovazione digitale dei processi?
L’aumento della complessità e la natura mutevole dei sistemi di lavoro sono alla base del paradigma di Industria 4.0 in cui i robot e i robot collaborativi sono una nuova importante tecnologia, parte integrante dei sistemi cyber–socio–tecnici (concetto approfondito da molti studiosi: Borys et al., 2009; Cohen et al., 2021; Costantino et al., 2021; Guiochet et al., 2017; Hollnagel, 2008; Patriarca et al., 2021; de Roure et al., 2019).
I manager delle aziende odierne non possono permettersi di non essere aggiornati su tali aspetti, ma occorre che siano formati nell’ottica di poter coordinare, monitorare e valutare se stessi e una forza lavoro correttamente formata, uscendo dalla logica win win (o al contrario apocalittica) che ancora si percepisce in alcuni contesti d’impresa. L’innovazione produce cambiamento e il cambiamento almeno nelle prime fasi comporta una fase destruens, anche dal punto di vista cognitivo e dei processi formativi, che va correttamente progettata e accompagnata dalle figure manageriali. I manager dovranno perciò combinare competenze tecnologiche su più fronti (protocolli industriali, IoT, Cloud Computing, Big Data, nuove app, realtà aumentata, robotica e security e altre ancora) e competenze più strategiche.
E quali competenze devono invece avere i lavoratori interessati da questo tipo di innovazione?
Tipicamente una forza lavoro digitalizzata assume un maggior potere decisionale diminuendo invece un ruolo prevalentemente operativo; le competenze dei lavoratori divengono un anello strategico con la funzione di monitorare e garantire il buon funzionamento del processo digitalizzato, concetto noto in letteratura come “human in the loop” (ad esempio nei contesti di machine learning) che, di fatto, determina una costante interazione tra uomo e tecnologia. Se si prendono in esame le classificazioni delle cosiddette tecnologie abilitanti a supporto dell’Industria 4.0 o della smart industry e le si confrontano con le competenze maggiormente richieste in alcuni comparti particolarmente investiti dai processi innovativi (Osservatorio delle Competenze Digitali, 2019), ci si rende facilmente conto che al lavoratore, più o meno smart, non basterà “conoscere” concetti né aver appreso saperi procedurali basici da ripetere pedissequamente in un contesto invece in continua trasformazione. Al lavoratore viene ora richiesto di assegnare significato a dati e situazioni, di analizzare e confrontare contesti, di valutare l’azione migliore, in funzione di un dato o uno scenario reso evidente grazie alla tecnologia. In conseguenza di ciò, le competenze ritenute oggi indispensabili sono: pensiero critico, capacità di analisi, problem solving, e abilità nell’autogestione. È dunque possibile ipotizzare che i processi cognitivi particolarmente coinvolti nella “workplace innovation” siano quelli di ordine superiore, vale a dire l’analizzare, il valutare, e il creare.
L’introduzione delle nuove tecnologie digitali ha profondamente trasformato anche il modo in cui le varie parti aziendali entrano in contatto e comunicano tra loro, introducendo la necessità di nuove competenze relazionali.
In che modo queste competenze possono essere formate?
Occorre modificare il modo in cui vengono progettate, erogate e valutate le attività formative nelle imprese. Occorre che le competenze che si desidera ottenere al termine della formazione vengano mobilitate, monitorate e valutate anche durante la formazione stessa. Occorre dunque da un lato evitare approcci prevalentemente trasmissivi della formazione (che in verità sono ancora prevalenti nella maggior parte dei contesti formativi) e in seconda istanza non cadere nell’ingenuo “learning by doing”, l’imparare facendo, da molti confuso con l’esercitazione pratica, applicativa e procedurale che per nulla incide sulle abilità cognitive di ordine superiore, ma rimane ancorato su abilità cognitive basiche e prevalentemente applicative. Il tema della formazione dei formatori è inoltre troppo poco dibattuto e in molti casi il formatore è un esperto di contenuto che non possiede un’adeguata formazione pedagogica e docimologica. Il tema della valutazione, inoltre, è spesso banalizzato e non correttamente interpretato come processo strumentale al processo di apprendimento.
Che cosa si intende esattamente per soft skills e competenze trasversali? Sono davvero così importanti, e perché?
Personalmente credo che il concetto di competenza stessa racchiuda al proprio interno strutture hard e strutture soft. La divisione tra hard e soft skills sul tema delle competenze l’ho sempre trovata poco calzante e artificiosa, sebbene vada per la maggiore. Una persona per essere competente deve dimostrare di avere risorse conoscitive, certamente, ma soprattutto strutture di interpretazione che le permettano di assegnare significato ai contesti in cui agisce e strutture di autoregolazione che le permettano di modificare le proprie strategie risolutive al modificarsi della situazione. Non riesco a immaginarmi una persona competente solo hard o solo soft, questo probabilmente è un mio limite.
Quale ruolo possono avere i robot nella formazione delle competenze richieste dalle aziende digitali?
L’implementazione di robot e cobot negli ambienti di lavoro manifatturiero può aiutare a ridurre quanto più la presenza umana in ambienti di lavoro pericolosi, come spazi ristretti o in alta quota. In aggiunta, tali tecnologie consentono di eseguire compiti di routine o ripetitivi mediante macchine veloci, precise e instancabili, anche facilitando l’accessibilità al lavoro alle persone con disabilità fisiche o strutturali. L’implementazione di sistemi di realtà aumentata (AR) e realtà virtuale (VR) è spesso vantaggiosa negli ambienti di lavoro e può esserlo anche nella formazione, dando ad esempio alle persone ancora in formazione la possibilità di simulare ed esercitarsi su una situazione reale anche quando questa non risulti accessibile. Gli stessi dispositivi indossabili intelligenti vengono spesso utilizzati negli ambienti di formazione e di produzione per monitorare e formare rispetto a corrette condizioni di lavoro e segnalare situazioni rischiose, quando necessario. Infatti, gli “smart wearable” possono inviare segnali di allarme a un lavoratore o alle persone preposte al monitoraggio di una specifica area di produzione (v. Gnoni et al., 2020).
I robot si rivelano potenti strumenti educativi anche nella formazione dei formatori, cioè dei docenti che a loro volta dovranno trasmettere i concetti dell’industria digitale ai dipendenti delle aziende o agli studenti delle scuole.
CHI È DANIELA ROBASTO
Daniela Robasto è professoressa di Docimologia e Progettazione nelle istituzioni educative e nei servizi educativi presso il Dipartimento di Filosofia e Scienze dell’educazione (DFE-UNITO) dell’Università degli Studi Torino. In precedenza, ha insegnato 6 anni all’Università di Parma.
Nell’Ateneo torinese è inoltre coordinatrice dell’area Ricerca, Terza Missione e Impatto Sociale del Presidio di Qualità. Robasto è docente incaricata per la formazione dei docenti universitari neoassunti dell’Università di Torino e membro Consultant del Teaching and Learning Center di Ateneo. Nel 2021 le è stato conferito il Premio Nazionale SIRD 2021 di Ricerca Didattica, riservato agli articoli pubblicati su riviste scientifiche italiane e internazionali relativi a teorie, metodi e procedure della ricerca valutativa nei diversi contesti educativi. Nel 2017 ha ricevuto a Montecitorio il Premio Italiano di Pedagogia SIPED 2017.
La sua attività di ricerca scientifica riguarda essenzialmente tre linee tematiche:
- la metodologia della ricerca educativa, con lo studio di strategie, tecniche e strumenti di raccolta e di analisi dei dati nei contesti educativi e formativi;
- la docimologia e le tecniche di valutazione, con lo studio di strategie di valutazione dell’apprendimento di minori e adulti;
- le strategie di progettazione, monitoraggio e valutazione di interventi formativi, con particolare attenzione alla progettazione e valutazione per competenze e alla valutazione e autovalutazione nei sistemi formativi innovativi (autovalutazione di sistema).
In convenzione con l’Università di Torino, in qualità di responsabile scientifico, Daniela Robasto ha progettato e condotto interventi formativi in diverse pubbliche amministrazioni e aziende, prevalentemente sui temi della progettazione e valutazione di interventi formativi per lo sviluppo di traguardi di competenza; sulla progettazione e valutazione di piani di miglioramento e sulle strategie e modelli di rilevazione dati a supporto dei processi autovalutativi e organizzativi (customer satisfaction). Robasto ha anche supportato varie aziende private nella formazione dei formatori (per lo sviluppo di academy interne) o nella formazione dei responsabili di risorse umane.
DA LEGGERE
Lo spunto per l’intervista a Daniela Robasto proviene da un volume curato dalla docente dell’Università di Torino e pubblicato da Franco Angeli. Il titolo è “Robot e cobot nell’impresa e nella scuola-Processi formativi e trasformativi nella workplace innovation”.
Il libro raccoglie 16 interventi scritti da vari esperti che non solo evidenziano i temi chiave legati all’innovazione nei contesti di lavoro e alla trasformazione delle competenze che comportano, ma descrivono anche esperienze reali condotte a vari livelli, dalla scuola primaria alle aziende.
Emerge in particolare il ruolo positivo che i robot possono avere, in situazioni anche molto diverse, come strumenti educativi che non solo aiutano a insegnare come fare determinate cose ma che soprattutto inducono un livello di riflessione capace di sviluppare competenze non tecniche. Il robot, insomma, una volta di più si afferma non solo come strumento materiale, ma anche come strumento culturale.
Particolarmente efficaci sono i capitoli iniziali del libro, che inducono a una riflessione sulle competenze utili e necessarie nella transizione digitale e su come avviare e gestire i processi di formazione o di reskilling. ©WE ROBOTS
“Robot e cobot nell’impresa e nella scuola-Processi formativi e trasformativi nella workplace innovation”, è il libro scritto da Daniela Robasto, edito da Franco Angeli, da cui è nato lo spunto per questa intervista.