A chi ricerca un coach, Stefano Selvini consiglia di: “valutare la reale esperienza sul campo e la professionalità del coach a cui ci si rivolge, le sue competenze reali”.
Scopriamo cosa significa nel concreto essere un coach e quali sono le competenze necessarie per ricoprire questo ruolo sempre più ricercato dalle imprese. Per capirlo ci accompagna nel nostro cammino Stefano Selvini, coach del gioco e della leggerezza.
di Federica Conti
Mai come negli ultimi anni si è sentito sempre più spesso parlare di coaching, una metodologia di sviluppo personale attraverso la quale una persona supporta un cliente o un allievo nel raggiungimento di uno specifico obiettivo, professionale, umano o sportivo. Che cosa vuol dire però, nel concreto, essere un coach? Quali sono le competenze necessarie per ricoprire questo ruolo sempre più ricercato dalle aziende? Ne parliamo con Stefano Selvini, coach, come ama definirsi lui stesso, del gioco e della leggerezza.
Buongiorno Stefano, come nasce la tua idea di diventare un coach?
È un’idea che ho maturato nel tempo, dopo aver vissuto alcune esperienze lavorative in grandi realtà come Lenze Lenze. Qui ho lavorato per diversi anni come Responsabile Amministrativo, un’esperienza molto importante, intensa e formativa, fondamentale per la mia crescita professionale e, prima ancora, umana.
Nel 2011, dopo quasi sei anni in Lenze, a causa di una mia necessità personale, ho deciso di intraprendere un nuovo percorso in un’altra azienda, più vicino a casa, dove lavoro come Group Controller. È qui che ho compreso ancora di più come il mio vero interesse fosse la crescita delle persone.
Quali sono stati i suoi primi passi verso il mondo del coaching?
Prima di compiere qualsiasi passo è fondamentale la presa di coscienza: nel mio caso questa è avvenuta durante la frequentazione di un corso di PNL (ndr: Programmazione Neurolinguistica) per sviluppare la mia carriera. Dagli esercizi sui miei obiettivi di crescita professionale e dall’incontro con diversi coach, infatti, ho capito che il mio vero desiderio non era quello che avevo in mente, ossia diventare CFO di un gruppo internazionale. Ho capito, invece, che i miei obiettivi erano altri: prima ancora del risultato, a me interessava il percorso, il viaggio, la sfida. Desideravo mettermi in gioco ogni giorno, aiutando le persone a percorrere correttamente la loro strada. Sentivo il bisogno di partecipare alle sfide degli altri. Quando le persone liberano il loro potenziale stanno bene, riescono a esprimere la loro vera natura.
Stefano Selvini durante una sessione di coach, “un’idea che ho maturato nel tempo, dopo aver vissuto alcune esperienze lavorative in grandi realtà come Lenze”.
Che cosa significa, nel concreto, fare coaching?
Ti racconto un aneddoto che lo spiega in modo chiaro: in un ranch, dove vivono un coach e suo figlio, un giorno arriva un nuovo cavallo. Loro non sanno di chi sia e desiderano riportarlo a casa; il padre si mette quindi in cammino accompagnando il cavallo al suo luogo d’origine. Al suo ritorno senza l’animale, il figlio gli chiede come abbia fatto, poiché non conosceva la strada. Lui risponde “Mi sono solo affiancato al cavallo e l’ho accompagnato nel suo cammino: lui la strada la conosceva già, gli ho solo impedito di prendere delle deviazioni”. Questo è il mio lavoro: io non mostro la strada alle persone, le accompagno nel loro viaggio e verso il loro obiettivo, dando loro consapevolezza quando rischiano di allontanarsi dal percorso. Il focus del mio lavoro non è chiedere ai clienti perché siano finiti su quella strada, ma aiutarli a uscirne, con una prospettiva rivolta al futuro.
Qual è stato il tuo percorso formativo per diventare coach?
Ho frequentato più di 100 giornate d’aula per prepararmi come coach, e continuo ancora oggi: è una formazione costante, in cui occorre restare aggiornati. Al giorno d’oggi, invece, ci sono purtroppo tanti giovani che vogliono diventare coach – se posso permettermi – un po’ a caso, senza seguire un percorso di crescita strutturato. Io credo però che spesso non sia sufficiente uscire da una scuola di coaching per definirsi un vero coach, ma che occorra specializzarsi in un contesto specifico, acquisire delle competenze ad hoc, continuare a imparare.
Che tipo di approccio adotti nei tuoi incontri?
Come coach adotto un approccio coinvolgente attraverso lo strumento del gioco. Mi piace lavorare sulla felicità, sul benessere delle persone, prendendo un contesto ludico e applicandolo nell’apprendimento e nella scoperta di situazioni reali e serie. In particolare, utilizzo il metodo Lego Serious Play: attraverso i mattoncini colorati, infatti, ognuno costruisce la propria identità, scegliendo dettagli che raccontano molto di sé. Nulla è casuale, anzi, ogni dettaglio è scelto e voluto, anche inconsapevolmente: spesso, infatti, le persone attribuiscono un significato del pezzo utilizzato solo a posteriori. Posso affermare che con questo strumento emergono degli aspetti della personalità molto interessanti, mai scontati.
Prima accennavi a un ruolo importante di Lenze nella tua crescita formativa: che ruolo ha avuto l’azienda nel tuo percorso di coach?
Direi un ruolo fondamentale: nella mia esperienza professionale Lenze è stata davvero protagonista, poiché, come coach, mi ha dato modo di seguire la sua prima linea per farla lavorare su tematiche di team e sviluppare maggiormente il ruolo di team player. Ricordo con piacere che proprio durante questo percorso formativo, che è durato un anno, ho preso la certificazione Lego Serious Play, ed è in Lenze che ho tenuto il mio primo workshop aziendale: un grande attestato di stima e di fiducia nella mia professione. Per me è stato l’inizio di una bellissima avventura che continua ancora oggi: ricordo ancora la sorpresa dei dipendenti che sono entrati in aula e hanno visto il tavolo pieno di mattoncini colorati. Ognuno aveva portato il pranzo da casa, si era creata un’atmosfera di empatia e di convivialità, una vera coesione di team. È stato un momento magico. In questo senso, Lenze è una realtà molto attenta alla formazione, che pone davvero l’uomo al centro, come propulsore di ogni attività.
Il metodo Lego Serious Play: attraverso mattoncini colorati ognuno costruisce la propria identità, scegliendo dettagli che raccontano molto di sé.
Hai adottato anche altri metodi nel corso della tua esperienza?
Sì, proprio perché nel mio lavoro mi piace formarmi continuamente ed esplorare nuovi campi. Nell’ultimo anno, infatti, ho introdotto anche lo yoga della risata, una disciplina che prende in considerazione il ridere come simbolo ed espressione del bambino che è in noi, e che permette di far emergere la parte più ludica che tutti noi tendiamo a nascondere. Durante l’emergenza, ovviamente, questo nuovo approccio che si basava principalmente sugli incontri dal vivo è stato frenato.
A proposito di emergenza sanitaria, come è cambiato il tuo lavoro in questo periodo storico così eccezionale?
Personalmente da questa crisi ne esco molto rinforzato: come tutte le situazioni critiche, credo che anche questa abbia obbligato molte persone a rompere gli schemi e a buttarsi in nuovi ambiti. Parte del mio lavoro che sviluppavo nel periodo pre-Covid continuo a portarlo avanti online, ma parallelamente ho iniziato anche un percorso nuovo, che avevo già avviato lo scorso autunno con il sito capoleader.com. È un progetto dedicato alla leadership, che fornisce strumenti ai giovani capi per gestire meglio le loro sfide, nell’evoluzione fondamentale da capo a leader. L’obiettivo è aiutare i miei clienti a ricoprire entrambi i ruoli, il manager e, appunto, il leader, lavorando sull’efficacia e sulla strategia in modo sinergico.
Che cosa propone il tuo nuovo sito?
È un sito nuovo che fornisce contenuti tematici proprio sulla leadership. Durante la crisi ho trovato uno strumento dedicato proprio a questo ambito, una piattaforma online che si basa sull’aspetto ludico, una leadership simulation: il partecipante gioca un ruolo serio, lavora in un’azienda e guida un team di persone virtuali attraverso sfide di leadership basate sul flow, sul creare ambienti lavorativi coinvolgenti. L’obiettivo ultimo, in cui credo fortemente, è infatti quello di sviluppare il benessere collettivo, portando la felicità ai collaboratori e aiutandoli a lavorare nel miglior modo possibile. Grazie a questo strumento sto vivendo un salto di qualità molto importante per il mio lavoro.
Abbiamo detto che le crisi possono portare anche delle opportunità: come valuti la condizione di Smart Working vissuta da milioni di persone durante l’emergenza?
Ho esperienza di clienti che hanno tratto benefici dallo Smart Working, vedo molti aspetti sicuramente positivi. Ovviamente non credo che il lavoro vis a vis possa essere sostituito in toto dalla modalità da remoto, ma un giusto equilibrio tra i due approcci permette di trarre numerosi benefici in termini di minor inquinamento, meno costi indiretti e meno traffico per gli spostamenti. Sono anche convinto che nei prossimi anni assisteremo allo sviluppo di nuovi strumenti tecnologici che agevoleranno ulteriormente la modalità Smart Working; prima dell’emergenza, infatti, le aziende non avevano ancora investito in questo ambito.
Una costruzione realizzata con il metodo Lego Serious Play. “Come coach adotto un approccio coinvolgente attraverso lo strumento del gioco”, afferma Stefano Selvini.
Che tipo di suggerimento vorresti dare a coloro che desiderano diventare coach?
Penso che al giorno d’oggi stiano emergendo tantissime figure, anche molto giovani, di coach che definirei un po’ tuttologi. Io, personalmente, consiglio di trovare una propria area di competenza, in cui si è esperti, e prepararsi a diventare specialisti di quell’area di competenza. Io, per esempio, mi sono posizionato come coach del gioco e di supporto ai leader anche grazie alla mia personale esperienza professionale.
Infine, a una persona che invece cerca un coach, che tipo di criterio di scelta consiglieresti?
Esattamente lo stesso consiglio che darei a un coach: direi di cercare qualcuno che sia specializzato nell’ambito specifico di cui lui o lei ha bisogno, non rivolgendosi a coloro che si professano esperti di ogni settore, ma di indirizzarsi verso un aspetto particolare. Penso, per esempio, alla crescita di una startup, alle dinamiche di un’agenzia di viaggio, allo sviluppo di un leader. Occorre valutare la reale esperienza sul campo e la professionalità del coach a cui ci si rivolge, le sue competenze reali. Una volta scelto il professionista, si potrà intraprendere insieme a lui il meraviglioso viaggio alla scoperta del proprio potenziale ancora inespresso. ©TECNeLaB
Mi piace lavorare sulla felicità, sul benessere delle persone, prendendo un contesto ludico e applicandolo nell’apprendimento e nella scoperta di situazioni reali e serie.